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Ecco cosa fare a Padova almeno una volta nella vita

Non si sente parlare spesso di Padova, e ancora meno capita di incontrare qualcuno che conosca pienamente questa città. Eppure basta andare all’estero e tutti sanno di che città si parla, se non altro
perchè la ricollegano a sant’Antonio .... da Padova, appunto.
Anche se Padova per alcuni aspetti è una città sottovalutata - non a caso nota come “la città dei tre senza” (si dice infatti che ci sia “un Santo senza nome, un prato senza erba e un caffè senza porte”) - è stata invece elogiata da molti scrittori e poeti nel tempo.
Galileo che definì proprio gli anni padovani come i più belli della sua vita, Stendhal nominò il Caffè Pedrocchi” “le meilleur d’Italie”, Marcel Proust s’innamorò della Cappella degli Scrovegni, Oscal Wilde vi ambientò La duchessa di Padova, Shakespeare La bisbetica domata. Numerosissimi artisti hanno lasciato il segno in questa città, dalle opere di Giotto e Donatello ai graffiti di Kenny Random.
Passeggiando sotto i portici - così romantici, così utili! - si scoprono continuamente scorci e giardini segreti, di cui i padovani sono terribilmente gelosi, nascosti dai palazzi. Scorazzando in bicicletta per le strade del centro, del tutto asimmetriche, strette e imprevedibili, vi verrà da sorridere pensando che è proprio vero che “Padova ze stà disegnà da un imbriago orbo, in una notte sensa luna!”.
Sacro e profano si sono da sempre intrecciati in questa città: da un lato Sant’ Antonio, santo taumaturgo, e dall’altro Galileo Galilei, fondatore della scienza sperimentale. Padova è quindi una meta di pellegrinaggi verso la famosa basilica e attrazione per migliaia di studenti ogni anno. L’università degli Studi di Padova richiama da ogni dove frotte di giovani, inevitabilmente attirati dal clima goliardico di questa istituzione.
Ecco “alcuni” motivi per innamorarsii e riscoprire la nostra città.

Conosci la tua città?
Ecco cosa fare a PADOVA almeno una volta nella vita

1. Trovare il proiettile incastonato nel Caffè Pedrocchi
Arrivando a Padova dalla stazione e seguendo la via principale, Corso del Popolo, per poi arrivare in Via VIII Febbraio 1848, si riconosce immediatamente l’elegante Caffè Pedrocchi.
E’ inconfondibile sia per le imponenti colonne, sia per le quattro vistose statue dei leoni a riposo su cui ogni padovano DOC è stato fotografato almeno una volta a cavalcioni quand’era bambino. Non si intuisce facilmente vedendola dalla strada, ma la più importante costruzione ottocentesca della città ha la pianta a forma di pianoforte a coda.
Il Caffè Pedrocchi sorge in un punto che da sempre è nevralgico per Padova, come dimostrano alcuni ritrovamenti archeologici che hanno riportato alla luce alcune colonne corinzie e un lastricato, a prova del fatto che proprio qui, un tempo si trovava il Foro romano. Il Pedrocchi è noto con l’appellativo di “caffè senza porte”, sia per la fama di non aver mai chiuso - nemmeno di notte - dalla sua apertura (il 9 giugno 1831) al 1916, sia per la sua rinomata accoglienza: alle donne spesso venivano regalati fiori, in caso di pioggia improvvisa ai clienti veniva prestato un ombrello e, nonostante i prezzi un tempo molto bassi, chiunque poteva sedere ai tavoli anche senza ordinare, magari solamente per leggere il “Caffè Pedrocchi” o altri giornali messi a disposizione.
Questo caffè letterario, fra i locali più celebri d’Italia, prende il nome dal torrefattore Antonio Pedrocchi, che imparò il mestiere ed ereditò la piccola bottega di caffè dal padre Francesco, di origini bergamasche.
Antonio acquistò alcuni stabili attigui con l’idea di costruire un caffè senza precedenti, ispirato alle botteghe austriache. Quando l’edificio fu definitivamente completato, era diviso in due zone ben distinte: il Caffè, pasticceria e caffetteria con sale in cui era possibile fumare, discutere o semplicemente sostare, e il Ridotto, una sala dedicata a diverse attività, come il casinò per gli aristocratici e una sala per la borsa.
Osservando il locale da fuori, si può notare un contrasto di stili: eleganti linee neoclassiche dalla parte del corridoio si contrappongono nettamente alle guglie neogotiche del Pedrocchino, il corpo attiguo aggiunto nel 1839 e destinato ad accogliere la pasticceria. Le sale al piano terra sono la Verde, la Bianca e la Rossa, e devono il loro nome ai colori della tappezzeria.
La posizione del Pedrocchi, nel cuore del centro cittadino, lo ha reso subito un importante luogo di incontro fra studenti, intelletuali, commercianti e uomini politici. Durante il Risorgimento, proprio qui fu organizzata dagli studenti padovani l’insurrezione dell’8 febbraio 1848 contro gli austriaci, repressa con le armi.
Non a caso, al primo piano del Caffè si trova il Museo del Risorgimento e dell’Età contemporanea.
Questo avvenimento viene celebrato ogni anno, e in questa occasione ricorre la festa del cambio di tribuno della goliardia padovana.
VIII Febbraio è, inoltre, il nome della via che oggi viene comunemente chiamata Lìston, dove ci trova il Caffè.
A prova di quanto avvenuto quel giorno, ancora oggi una targa, in una delle sale, segnala il foro di uno dei proiettili sparati dai militari austriaci contro gli studenti: l’avete trovato?
Fu proprio il ferimento di uno studente a dare il via ai moti risorgimentali di Padova. 2. Chiedersi perchè una delle più antiche università è dedicata ad un bue
L’università di Bologna è la più antica del mondo occidentale essendo stata fondata nel 1088 .... ma non tutti sanno che, nel II secolo, scolari e professori da lì migrarono spontaneamente verso Padova “per le gravi offese ivi arrecate alla libertà accademica e per l’inosservanza dei privilegi solennemente garantiti a docenti e discenti”. A Padova, dunque, l’università non nacque ex privilegio - cioè per speciale licenza del pontefice o dell’imperatore - ma come conseguenza spontanea della volontà di far vincere il sapere sul potere.
Grazie quindi a questa traslatio studii l’università fu ufficialmente fondata nel 1222.
Il motto della scuola “universa universis patavina libertas”, e simboleggiava la grande libertà accademica concessa a studenti e docenti. Ovviamente era molto diversa da come siamo abituati a vederla oggi.
L’Università nacque come scuola di Diritto e si costituì come Universitas scholarium, ovvero una libera corporazione di scolari che stipulavano un contratto con i propri maestri. Il contratto prevedeva un vincolo reciproco: i maestri dovevano trasmettere il proprio sapere agli studenti, i quali si impeganvano a retribuirli con il ricavato di collette, oltre che ad approvare gli statuti ed eleggere i docenti.
Gli insegnanti erano lettori: tenevano cioè le lezioni leggendo e commentando i testi classici che poi dovevano essere interpretati dagli studenti. 
L’università di Padova visse la sua massima fioritura tra la fine del Trecento e la fine del Seicento. Affluivano qui i migliori docenti da ogni dove e l’università ottenne, grazie a una bolla papale, il permesso di istituire la facoltà di Teologia che allora esisteva solamente alla Sorbona e a Bologna. Fino alla fine del Quattrocento, l’ateneo non aveva una sede unica e stabile, anche perchè gli studenti non erano così numerosi da aver bisogno di spazi più ampi degli edifici preesistenti.
Le lezioni si tenevano spesso presso case private e la spesa dell’affitto spettava ai professori. Solamente nel 1493 si unificarono gli studi in un unico blocco di edifici nel centro della città, tra il Pedrocchi e il Municipio.
Si tratta dell’ “Hospitium bovis”, ovvero “Albergo del bove” situato accanto ad alcune macellerie, che aveva come insegna in teschio di bue ( bo in dialetto). L’albergo era famoso in tutta Europa per le sue ampie stalle che potevano ospitare più di 100 cavalli. Questo edificio fu poi regalato ad un macellaio da Francesco da Carrara, signore di Padova, per sdebitarsi delle provviste di carne fornite durante l’assedio della città nel 1405.
Sia l’appellativo “Palazzo del Bo” che l’emblema del teschio di buon sono rimasti fino ai giorni nostri come sede e stemma dell’università, l’unica dell’Impero veneziano.
L’edificio fu prima riadattato e infine demolito per costruire un palazzo più adatto alle nuove funzioni.
Sopra l’imponente portone rimane ancora oggi la scritta “ Gymnasium omnium disciplinarum”, ovvero “Scuola di tutte le discipline”, a memoria dell’università dei saperi qui insegnati. Sopra alla scritta è bene in vista lo stemma del doge dell’epoca, Pasquale Cicogna, rappresentato appunto da una cicogna.

3. Fare un pic-nic sul prato... senza erba
Il Prato della Valle (Pra de ła Vałe /pra dea vae/, in padovano) è la più grande piazza della città di Padova e tra le più grandi d'Italia e d'Europa con una superficie di 88.620 mq.
La piazza è in realtà un grande spazio monumentale caratterizzato da un'isola verde centrale, chiamata Isola Memmia, in onore del podestà che commissionò i lavori, circondata da un canale ornato da un doppio basamento di statue numerate di celebri personaggi del passato che secondo il progetto originario dovevano essere 88.
Oggi possiamo osservare, invece, solo 78 statue con 8 piedistalli sormontati da obelischi e 2 vuoti. 
Quattro viali attraversano il Prato su piccoli ponti, per poi incontrarsi al centro dell'isolotto. La sistemazione trae ispirazione dalla grande tradizione veneta del giardino patrizio; qui per la prima volta questo venne distolto dall'uso privato e proposto, secondo i concetti neoclassici, come soluzione urbanistica e qualificazione ambientale.
Fin dall'antichità questo spazio aperto ebbe funzioni economiche e ricreative. In epoca romana fu sede di un vasto teatro, lo Zairo, delle cui fondamenta sono state rinvenute le tracce nel canale che circonda l'Isola Memmia, e di un circo per le corse dei cavalli. Nell'epoca delle persecuzioni contro i primi cristiani, il circo fu utilizzato per i combattimenti. Qui furono martirizzati due dei quattro patroni della città, Santa Giustina e San Daniele.
Nel Medioevo fu invece sede di fiere, giostre, feste pubbliche e gare, come le corse dei "sedioli", una specie di biga tipicamente padovana o il "castello d'amore", che si concludeva con la conquista delle belle ragazze da marito da parte di giovanotti venuti da tutto il Veneto. La domenica delle Palme era anche il luogo tradizionale delle grandi assemblee "di tutti gli uomini liberi del Padovano" e già nel 1077 era luogo da "mercato" e due volte al mese aveva luogo il mercato degli animali. Ad ottobre e a novembre si tenevano invece le due grandi fiere in onore dei Santi Patroni Giustina e Prosdocimo.
Persino le più frequentate prediche di Sant'Antonio venivano tenute in Prato della Valle.
Sebbene si trovasse a ridosso delle mura della città, continuò a mantenere per lungo tempo il suo aspetto paludoso e malsano, dovuto alla conformazione a catino del terreno, dove l'acqua ristagnava, tanto da assumere quell'aspetto di valle che giustifica il nome. Inoltre esso non era proprietà demaniale, ma dell'abbazia di S. Giustina che, durante la dominazione veneziana, non aveva i mezzi di curarne la bonifica.
Solo nel 1775, Andrea Memmo, patrizio veneziano illuminista, nominato Provveditore della Serenissima a Padova, con l'aiuto dell'abate Domenico Cerato, professore di architettura a Vicenza e Padova e progettista di diverse opere pubbliche a Padova e dintorni, valorizzò questo spazio attuando una radicale bonifica e creando una canalizzazione sotterranea destinata a far defluire le acque dell'anello centrale, che tuttora vediamo, valicato da 4 ponti, recingere una specie di grande aiuola circolare.
Secondo le cronache, per la realizzazione dell'isola Memmia, dei ponti e della canaletta bastarono 44 giorni e senza aggravio per l'erario in quanto Andrea Memmo usò anche il suo denaro. Il suo progetto, rimasto in parte incompiuto, è visibile in un'incisione su rame di Francesco Piranesi del 1785.
Sembra che Memmo avesse commissionato questa e altre rappresentazioni e le tenesse esposte a Palazzo Venezia, sede dell'ambasciata della Repubblica a Roma, nell'intento di ottenere il finanziamento per le statue ornamentali, proponendolo a persone notabili.

... arrivederci alla prossima puntata

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